DOMANDE e SOLLECITAZIONI amorevoli – m tabe

DOMANDE e SOLLECITAZIONI amorevoli –  m tabe

1. Sbattersi e suonare davanti a 4 individui, editare cdr dalla tiratura di 50/60 copie. Perché fai questo?

[risposta immediata]
Mi trovo ancora latitante in contesti estremamente marginali ed elitari. (Dato di fatto.) Sarei quasi spinto a dire che il motivo è che da un punto di vista tecnico/musicale non sono ancora abbastanza “bravo”, o maturo; ma queste cose, per quanto possibili, non sono veramente influenti sulla fortuna personale di un autore (per la definizione di fortuna vedi Souiller e Troubetzkoy). Un punto più decisivo sarebbe piuttosto l’avere una proposta abbastanza definita, riconoscibile, fissata, in modo da facilitare le cose a promoter, recensori, ascoltatori, proponendo materiali già sintetizzati (più facilmente digeribili).
Sotto l’aspetto manageriale, inoltre, non ho ancora sviluppato un’ambizione specifica e mirata verso obiettivi “prestigiosi” (suonare regolarmente, davanti a un pubblico numeroso, con un cachet che vada abbondantemente oltre il rimborso-spese? – pubblicare e vendere CD con etichette e distribuzioni importanti? – camparci, con la musica?). Direi che questo punto è il più influente (visto anche come alcuni campioni dell’underground nostrani e stranieri puntano sul management e si possono permettere di bypassare tranquillamente qualsiasi questione tecnica e qualitativa).

[risposta alla risposta]
OK, ma non stai affrontando la questione del “fare in pubblico”.
Se il tuo discorso, come quello di quasi tutti, nasce da esigenze interiori/private, allora perché non lo tieni privato? Perché anche “gli altri” (i 4 o 14 spettatori del concerto, i 10 o 20 acquirenti del CDr) devono essere invitati a partecipare? E perché ogni volta ci si deve sbattere per trascinare all’evento quel solito gruppetto sparuto di benefattori (dal ricambio umano e generazionale così lento ed esiguo)? E perché ogni tanto si ha la sensazione che siano loro a fare un favore al musicista?

Rimandando a dopo la questione live, mi concentro sulla pubblicazione del CD (-r solo per convenienza economica, e in tiratura limitata perché limitata è la domanda, per motivi che risulteranno evidenti).
Premettendo che l’era discografica, che ha informato nel profondo la nostra stessa idea di musica, sta vivendo il suo lento declino, sembrerebbe che l’unico motivo per cui tutti continuano a pubblicare materiale eterogeneo su policarbonato (o vinile, o altro) è l’inerzia di chi non ha ancora visto un’alternativa all’altezza. (Ma l’alternativa all’altezza non può nascere dall’iniziativa di pochi – una cosa del genere ha origini sovrastrutturali…)
Spostandomi dai sistemi di produzione alle motivazioni interiori, non posso far altro che andare nettamente per negazione: non pubblico il CD(r) per decorare l’esistente. Ovvero, non devo offrire ai contemporanei l’ennesimo prodotto ready-made in grado di dargli l’illusione di esserCI, in un’idilliaca esistenza sul filo dell’avanguardia, QUI & ORA.
Ma non devo neanche spiegare/giustificare il perché di quello che faccio (che è auto-evidente). Casomai qui ci occupiamo del COME!

(Ho come l’impressione di stare creando nuove domande, piuttosto che rispondere.
Quindi proseguo su questa via.)

Per il piacere dell’amplesso occasionale?
Per irrisolte problematiche d’ego?
Accogli nel tuo mondo, l’idea che, fare arte, abbia una valenza terapeutica?

Sebbene al momento il fare arte che mi compete abbia fini più fisiologici che terapeutici, trovo più che comprensibile e plausibile l’idea dell’arte come terapia.

2. Perché suoni dal vivo?

Sul “vivo” inteso come “live”, onestamente non mi sono ancora immunizzato dai vari micro-traumi che il concerto comporta, quindi il “perché?” trova risposte tutt’altro che romantiche.
Tutto parte da un desiderio (adolescenziale o post-adolescenziale) di imitazione acritica (in assenza di meglio), ovvero “si suona dal vivo perché tutti i lo fanno e l’hanno sempre fatto”. Si raccattano poi qua e là motivazioni allegate, tutte all’insegna dell’ingenuità, vanità, volontà…
(Apprezzerei di più se si dicesse “organizziamo concerti per avere il pretesto di visitare città e paesi diversi”. O se si mettesse a nudo la propria vanità, perché quando si ha fra le mani qualcosa in cui si crede veramente, capita di convincersi che anche degli estranei possano apprezzare.)
Nel mio caso, c’è innanzitutto da dire che il mio produrmi in pubblico è sempre stato episodico, mai coniugato ad un tour, o una serie di più di 2-3 date. Di conseguenza, non ho potuto apprendere i meccanismi della routine. Ho sempre visto il concerto come evento singolo e isolato, con una sua preparazione specifica e la sua risonanza particolare; c’è sempre un lungo periodo che segue l’esibizione, nel quale le riflessioni vengono dilatati fino all’effetto blow-up. In poche parole, c’è una tensione notevole in ballo: per questo mi sembra interessante.
La motivazione alternativa che potrei giocare come jolly, se suonassi con più frequenza, è una ricerca del raggiungimento del “momento di saturazione”; ovvero, si suona dal vivo per accumulare abbastanza esperienze antipatiche da poter dire “basta” (vedi Glenn Gould), e dedicarsi solo allo studio (inteso sia come “studiare” sia come “Studio di registrazione”). Suonare per esaurirsi, prosciugare ogni residuo di personalità.
Ma non sono in molti a pensarla così, quindi non so fino a che punto quello che scrivo faccia testo!
Perché dal vivo esisti?
Perché sei vivo?
Consideri esistenza questa condizione?

Le questioni ontologiche le skippo con un saut de basque.

Sei indulgente con te stesso?

No. Non sono affatto indulgente con me stesso.

3. L’attuale condizione dell’essere musicista, nella dimensione produzione e nella dimensione performance,  ti crea un senso di spaesamento e d’isolamento?

Amo l’isolamento. Anche se a volte ho il sospetto di essere più una penisola. Ma essere un’isola mi sembra un po’ meglio che essere una penisola, e molto meglio che essere un territorio continentale.
Comunque, il suonare prevalentemente da solo (a prescindere dalla condizione attuale dell’essere musicista) aiuta a rinsaldare tale isolamento, ed essendo da sempre un anti-sociale, la situazione non mi fastidia affatto.

4. Quale esigenza, ti porta oggi a considerare necessario il fattore produzione e live?

Più che esigenza produttiva tout court, trattasi di esigenza fisiologica escrementizia. Vedi Derrida letto da Carmelo Bene: “quel che conta nell’arte non è il prodotto artistico, ma il prodursi dell’artefice in rapporto al quale l’opera non è che una ricaduta residuale: un escremento (nell’etimo, ciò che si separa e cade dall’organismo vivente della vita).”.
Per quanto riguarda il live, ho già scritto riguardo le mie motivazioni tutt’altro che romantiche.

5. Che valore ha la tua performance in termini di qualità e onestà?

“valore”, “qualità” e “onestà” sono tutte parole etimologicamente poco chiare e quindi insidiose.
In ogni caso, come posso rispondere a una domanda sul valore della mia performance in termini di onestà? C’è un tranello implicito. Altri potrebbero caderci e rispondere che sono super-onesti, ma io non posso e non voglio render conto dell’onestà di quel che faccio.

Per la qualità, né io né i contemporanei possiamo realmente valutare. Non si può mai veramente sapere, a meno che uno non sia un classico vivente (e sappiamo tutti quanto siano rari i classici viventi!).
Comunque, se proprio vogliamo, essendo le mie performance piuttosto sporadiche, è forse meglio considerare concerto per concerto. Ad esempio, l’ultimo mi ha soddisfatto.

6. Che storia vuoi lasciar di te? …hai in mente un orizzonte, un percorso, oppure… …no?

Qualunque storia, orizzonte o percorso auto-referenziale sarebbe un’auto-narrazione (se non addirittura training autogeno).
Preferisco non raccontarmela. Con la storia non voglio avere niente a che fare, e per quanto riguarda il percorso, esso è evidente solo in retrospettiva; e anche in quel caso, dubito che il diretto interessato possa estraniarsi da sé tanto da metterlo a fuoco; e anche se potesse, sarebbe appunto una retrospettiva, un revival, di nuovo un’auto-narrazione…

7. Sei sicuro che l’esposizione a scopo terapeutico, non ti generi un panico da esposizione e da aspettative continuamente deluse?

L’esposizione a scopo terapeutico non funziona se ci sono aspettative (proprie o altrui) da soddisfare (o deludere).
L’esposizione a scopo terapeutico funziona se la terapia è d’urto, e ci si immerge a fondo in tutte le scomodità che l’esibirsi in pubblico può comportare, dai disagi logistici al senso di inadeguatezza, per riemergere infine purificati da molti preconcetti e, appunto, da ogni aspettativa.
Avvertenza: una simile terapia non funziona se il paziente si protegge barricandosi dietro a un mal strutturato senso di superiorità culturale e a critiche facilone nei confronti dei più abiètti (o borghesi, che dir si voglia).

8. Il sistema che conoscevi e conosciamo è in agonia conclamata da tempo:
Fai finta di nulla?
Non ti poni il problema?
Come lo affronti?
Con quali astuzie diffondi cultura?
Data la condizione comatosa dell’insieme, di nuovo, cosa ti induce a credere di esistere?

Ah ah, “credere di esistere” – colto in pieno!

Fai resistenza?
Lasci scivolar via tutto?
Non te ne curi?

Zen.

9. Accade spesso di relazionarsi con l’esterno con usi e costumi prossimi al mondo del rock. Cioè, tutti noi, quando abbiamo due date di fila, facciamo un po’ di booking per creare un piccolo tour.
Tutto questo casino di telefonate e mail porta davvero dei risultati?
Come sviluppare proprie strategie di relazione?

Questo sistema specifico può funzionare se sono in ballo musicisti esterni (ad esempio gli stranieri) con i quali si ha desiderio di collaborare; così si infilzano un paio di date per racimolare i soldi per le loro spese di viaggio, e per suonare insieme.
Naturalmente ci vuole un’energia e una motivazione sovrannaturale, oltre che una rete di conoscenze giuste. Ma se uno sa quello che fa, il più delle volte la nuova alleanza (sotto forma di arricchimento artistico/individuale e perché no, prospettiva di pubblicazioni e nuove “bazze”) compensa il brutale sbattimento.

10. Hai scelto la frontiera, bene. La maggior parte dei suoni che produci ti tiene fuori al freddo, non è accogliente.
Ascoltare certe cose non nasce da una naturale pulsione, è una questione di tempo ed educazione, si tratta d’imparare a decifrare segni e silenzi; mica cazzi.
Perché, uno se le va a cercare?
La frattura tra artista e resto dell’universo è colmabile? Puoi proporre una mappa che ci/ti spieghi?

Se ci occupiamo di Artisti (maiuscoli), la frattura c’è sempre stata in quanto un Grande è un alieno, mai conciliabile con il Resto-del-Mondo se non attraverso il proprio concedersi (in martirio).
Comunque, con la disfatta umana e culturale dell’Europa (altro che Unione €uropea) che i libri mi dicono risalire a quasi un secolo fa, l’Occidente ha ben provveduto (dopo avere esiliato, ingabbiato e massacrato alcune delle più grandi personalità che lo hanno arricchito) a rendere più che improbabile la nascita di un nuovo grande Artista, distruggendo l’educazione primaria e minando alla base lo sviluppo di un individuo dotato di adeguati strumenti culturali.
(L’Estremo Oriente, invece, continua a sfornare grandi musicisti classici. Questo mi sembra un segnale positivo.)

Se consideriamo altri artisti (minuscoli), invece, non vedo nessuna frattura: essi sono prodotti legittimi della società e la rispecchiano in pieno.

La “gente” (intesa come massa di non addetti ai lavori), come ben dicevi, non han tempo ed educazione per mettere in discussione le forme consolatorie che vengono generalmente propinate, e di certo non va a cercare i musicisti sperimentali anche perché questi non fanno niente per andargli incontro. E con “andare incontro” non intendo semplicemente andargli a suonare sotto casa: se vuoi far breccia, bisogna fare i conti con i presupposti, i pregiudizi, la diseducazione e le predisposizioni di un ascoltatore casuale medio (naturalmente, se ritieni che ne valga la pena.) Bisogna tener conto del fatto che la gran parte della popolazione non ha molta voglia di farsi massacrare orecchie e certezze.
Anche perché “la scena”, priva di contatti critici con l’esterno, è molto indulgente con se stessa e quindi si deve far carico di proposte sconvenienti e/o dilettantistiche, che fomentano la diffidenza dell’avventore casuale.
Si è dunque sviluppata un’incomunicabilità profonda, che solo alcuni medium fra i 2 mondi hanno saputo cortocircuitare (vedi gli artisti “pop” che flirtano con musicisti d’avanguardia e inseriscono certi elementi sonori coraggiosi in opere che comunque mantengono un forte appeal commerciale. Oppure musicisti marginali che riscoprono forme tradizionali e si riavvicinano a un pubblico più vasto).

11. Fai diventar storia i tuoi perché, i tuoi come e i tuoi gesti. Come li vorresti rappresentare idealmente?

Disconosco la storia e diffido la rappresentazione.
Affido gesti, perché e percome all’inaffidabilità ineffabile e incontrollabile del postumo. Non per cinica tecnica difensiva, ma perché temo l’auto-storicizzazione.

PROVOCAZIONI ISOLATE

Non si avvista orizzonte né punto d’approdo, stante ciò: perché ti ostini a produrre?

Quando ti scappa, ti scappa.

Sei ricco?

Non sono economicamente indipendente, ma se ho bisogno di qualche migliaio di euro so come procurarmeli.

Sei un mecenate? Lo sai che suoni sempre nei soliti tre posti e prendi 50 euro a data come un manovale?

Se un manovale guadagna 1200€ al mese (circa 160 ore), significa che prende sui 7-8€ all’ora.
Un musicante di questi ambiti suona se va bene un’oretta, e prende 50€ a data se il concerto è a un raggio di 50-70 km da dove vive (la cifra arriva sugli 80-100€ se la location è a 100 km e oltre di distanza). Anche togliendo la cospicua percentuale che va in rimborso-spese, il musicante viaggia sempre su cifre più alte.
Voglio dire che la questione non è sulle cifre, ma sulla sicurezza economica del posto fisso. Ma su questo non ho un opinione in merito – lascio la parola a chi ha volontà o interesse a camparci.

EPISODICHE RIFLESSIONI

Faccio quel che faccio, domandandomi se esisto… Siamo isole? …distanti e incompatibili?

Siamo un arcipelago (oppure fiordi).
Non troppo distanti, ma rarissimamente compatibili a un livello artistico e culturale più profondo.

TUTTO IL CASINO PER…

Esplicitare una storia, la nostra.
Collettiva.
Dire di gesti, pensieri, movimenti, che altrimenti andrebbero persi.
Di volti occasionali che ne hanno fatto parte un istante, di altri, sempre in prima fila, ad azionarsi ed azionare.
Proviamo a diventar materiale didattico di repertorio, mica solo un ricordo sbiadito per pochi.

m tabe

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Marco Tabellini (M Tabe) suona chitarra elettrica e acustica. Nato nel 1985, ha sviluppato il proprio linguaggio da autodidatta, attraversando diversi ambiti della sperimentazione per chitarra in solo, con gruppi stabili (Auto da fè, attivo dal 2006 al 2009, e il duo con il percussionista Enrico Malatesta, tuttora attivo) ed ensemble estemporanei.

Partendo dall’improvvisazione, giunge all’utilizzo di partiture scritte (lasciando comunque spazio alla composizione istantanea), in una tensione costante volta all’unione di tecniche estese, eterodosse, e forme più solide, coniugando elementi rumoristici e lirismo.

Il suo set più recente è interamente acustico, e sintetizza gran parte delle ricerche degli ultimi anni utilizzando anche la chitarra “preparata”, indagando sia l’aspetto tecnico che quello storico.
Ha collaborato con Enrico Malatesta, Stefano Giust, Manuel Mota, Renato Ciunfrini, Stefano Pilia, e numerosi altri. Ha pubblicato due album solisti con l’etichetta Setola di Maiale (“15 improvisations for solo electric guitar” e “12 improvised compositions for solo electric guitar”) ed è ideatore, coordinatore e co-produttore (insieme a Stefano Giust, sempre per Setola di Maiale) della doppia antologia “Guitars – an anthology of experimental solo guitar music”, che ha coinvolto 23 chitarristi da tutta Europa.

http://www.myspace.com/radiomtabe

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